La chiamano “E-Learning Era”, la nuova fase dell’istruzione universitaria on-line in Italia: inaugurata nell’aprile 2003 con il decreto ministeriale a firma di Letizia Moratti e Lucio Stanca, allora rispettivamente Ministro dell’Istruzione e dell’Innovazione tecnologica, ha attraversato tredici anni tra aspetti contraddittori e numeri non proprio soddisfacenti. E proprio dai numeri bisogna partire per ragionare su questo fenomeno.

I dati dello scorso anno parlano chiaro:

  • 11 Università telematiche sul territorio nazionale;
  • 625 immatricolati, pari al 4% degli studenti italiani;
  • 500 immatricolati solo in quella maggiore (la Guglielmo Marconi).

Cifre decisamente contenute se raffrontate con quelle della spagnola Uned – che ne conta 200.000 – e dell’inglese Open University – in cui si raggiungono le 180.000 unità.

Ma perché le Università telematiche italiane stentano ancora a decollare?

La risposta è complessa, e va ricercata nella tipologia degli immatricolati, oltre che nelle tare culturali del nostro Paese.

Riguardo al primo aspetto, va segnalato che gli studenti che, nell’età biologica compresa tra i 19 e i 21 anni, intraprendono una carriera universitaria preferiscono l’offerta formativa delle Università “in presenza; al contrario, gli ultra quarantenni, che nelle università tradizionali sono sotto lo 0,7%, nelle università telematiche raggiungono il 18%: gli studenti di queste ultime sono dunque prevalentemente soggetti che già lavorano, che hanno famiglia o che vogliono arricchire il proprio curriculum in prospettiva di una migliore offerta occupazionale.

In sostanza, la percezione di tali enti da parte degli studenti è di un’“Università di dopo lavoro”.

Tra l’altro, il 31% degli immatricolati delle Università telematiche proviene da punteggi di diploma sotto il 69/100, mentre nelle Università classiche “in presenza” sono circa il 22%.

Sugli studenti under 30 le telematiche non paiono pertanto godere di particolare favore, e una delle ragioni potrebbe risiedere nelle alte rette d’iscrizione: circa 2.000 euro annui, destinati però ad aumentare con i servizi accessori di tutoring e e-Campus – in quest’ultimo caso questo il costo si quadruplica.

Le rette sono alte perché i costi fissi di gestione sono ammortizzati su pochi studenti, ma in tal modo si crea un circolo vizioso dal quale sembra difficile venir fuori.

Una delle soluzioni efficaci sarebbe quella di puntare su una proposta formativa realmente competitiva, all’avanguardia, che parta e faccia leva anche sulla tecnologia – ossia su di un aspetto che, proprio in quanto università telematiche, le vedrebbe di certo avvantaggiate rispetto agli enti tradizionali – e che, soprattutto, si incentri sulla ricerca (tasto dolente dei poli italiani, di ogni tipo e livello!), cercando collaborazioni e connessioni con E-University estere, più avanzate e più rodate.

Non è un caso che solo l’8% del corpo docente delle Telematiche sia costituito da ricercatori, contro il 35% delle Tradizionali.

At last but not least, occorrerebbe dare più valore al corpo docenti, oggi composto nelle Università telematiche da un numero elevato di professori universitari in pensione, che tengono lezioni in rotazione. Professori straordinari a tempo determinato, quindi, che, in fase di spinta all’apprendimento, finiscono forse per non offrire più moltissimo.

Solo con interventi volti ad un incremento della qualità formativa si potrebbe spingere finalmente l’e-learning universitario verso una compiuta fase di “maturità”.